Il redattore è estremamente onorato di ricevere dal suo vecchio conoscente e amico Friedrich il testo qui riportato.
Friedrich, filologo e filosofo, benché molto anziano e affetto da grave infermità, segue, nei pochi momenti di lucidità, questo blog dal suo ritiro di Weimar, in Sassonia, e, dopo aver letto le note del redattore su Marco Bradipo, detto il Cafone, ha ripreso un suo vecchio scritto, originariamente intitolato Della Plebaglia (Vom gesindel), lo ha adattato a questo personaggio e lo ha inviato al redattore con preghiera di pubblicarlo.
La versione originale è stata pubblicata molti anni fa (circa 130) e faceva parte di un’opera più ampia nella quale si riportavano i discorsi di un singolare viandante, certo Zarathustra, che, come il Cafone, andava alla ricerca di se stesso, ma, a differenza del Cafone, lo ritrovava.
Egli professava il superamento dell’uomo per andare oltre la sua condizione: un uomo senza pregiudizi e capace di generare nuovi valori, un uomo-oltre, o meglio, come diceva egli stesso nella sua lingua, uno Über-Mensch.
Il suo pensiero, spesso mal interpretato e cagione di indicibili sventure, ritrova oggi attualità nel nostro mondo infestato di onorevoli soubrette, di grandi fratelli dalle piccole menti, di isole di famosi sconosciuti, di anticipi e posticipi di campionato, di talent show senza alcun talento, di vigili urbani lungi dal vigliare, di lucidissimi opinionisti senza opinioni, di uomini onesti alla conquista di un potere disonesto, di esperti incompetenti di tutto, di oncologi laureati su Facebook, di credenti senza Dio, di miscredenti con il loro nuovi dei, di old aged adepti della new age, di viaggiatori globali affetti da protezionismo doganale, di terroni che dicono zio fa’ e odiano negri e zingari, di perbenisti frequentatori di travestiti, di ambientalisti amanti dello smog, di lavoratori che non lavorano, di capitalisti senza capitali ovvero di padroni con i soldi degli altri, di sindacalisti che sindacano su tutto, di sindaci che costruiscono discariche ma non puliscono le strade, di ministri che amministrano la solita minestra, di moralisti senza morale, di gente buona che impone le sue idee con cattiveria, di gente che odia in nome dell’Amore.
In una parola: un mondo infestato dai CAFONI.
Pertanto, per una volta, usciamo dal provincialismo del climbing nostrano e, applicando il metodo induttivo, andiamo dal particolare al generale, ripercorrendo insieme il sentiero che ci eleva dal Cafone allo Über-Mensch.
Il redattore, con le sue limitate conoscenze della lingua tedesca, ha cercato di rendere al meglio il senso del testo e si scusa con il suo amico Friedrich per eventuali discrepanze tra il testo originale e la sua traduzione.
DEI CAFONI
La vita è una sorgente di piacere; ma le sorgenti ove attingono anche i cafoni divengono avvelenate.
Io amo tutto ciò ch’è nitido; non so tollerare le bocche ghignanti e la sete degli impuri.
Essi hanno gettato lo sguardo in fondo alla sorgente e il loro sorriso ripugnante si rispecchia ora a me dal fondo del pozzo. Hanno avvelenata l’acqua pura con la loro libidine: e da quando hanno chiamato piacere i loro luridi sogni, hanno avvelenato anche le parole.
La fiamma si ritrae indignata quando essi accostano al fuoco il loro viscido cuore; lo stesso spirito gorgoglia e fumiga quando i cafoni si appressano al fuoco.
Dolciastro e appassito diventa il frutto nelle loro mani: malfermo e disseccato diventa l’albero quando essi lo guardano.
E in parecchi s’allontanarono dalla vita per allontanarsi dai cafoni: non volevano spartire con i cafoni le fonti, il frutto e la fiamma.
E parecchi se n’andarono nel deserto e soffersero la sete insieme con le belve, per non sedere intorno alla cisterna coi sudici cammellieri.
E più d’uno che giungeva come sterminatore e come grandine per i campi fruttiferi, voleva soltanto porre il suo piede nella bocca del cafone per soffocarne così la voce.
E non è questo il boccone che mi fu più duro ingoiare, sapere che la virtù ha bisogno di inimicizia, di morte, di tormentose croci… bensì io chiesi a me stesso un giorno, e quasi soffocai per la mia domanda: come? anche la vita ha bisogno dei cafoni?
Son necessarie le fonti avvelenate, i fuochi puzzolenti, i lividi sogni, e i vermi nel pane della vita?
Non l’odio, ma la nausea divorarono la mia vita! Ahimè, fui spesso stanco dello spirito, quando trovai che anche il Cafone aveva spirito!
E voltai le spalle ai dominatori quando vidi cosa chiamano oggi dominare: patteggiare e mercanteggiare il potere con i cafoni!
Dimorai tra popoli di lingua straniera, con orecchie chiuse: affinché mi rimanesse estranea la lingua con cui patteggiavano e mercanteggiavano per il potere.
E turandomi il naso ho attraversato indispettito il passato e il presente: in verità, l’uno e l’altro emanano il cattivo odore dei cafoni che scrivono!
Simile ad uno storpio che sia cieco e sordo e muto così vissi a lungo per non dover vivere con i cafoni che dominano, che scrivono, che godono.
Faticosamente e guardingo il mio spirito salì i gradini; l’elemosina del godimento era il suo ristoro; nell’appoggiarsi al bastone trascorre la vita del cieco.
Che mi accadde poi? In qual modo mi liberai dal disgusto? Come ringiovanii il mio sguardo? Come raggiunsi a volo l’altezza, là dove alla fonte più non siedono i cafoni?
Forse il mio stesso disgusto m’ha creato le ali e le forze presaghe di nuove sorgenti? In verità dovetti volare alla massima altezza per ritrovare la sorgente del piacere!
Oh, l’ho trovata, fratelli! Qui dalla vetta più alta sgorga per me la fonte del piacere! Ed esiste una vita nella quale i cafoni non bevono alla fonte!
Quasi con troppa forza per me tu sgorghi, fonte di piacere! E spesso vuoti la coppa di nuovo, mentre vuoi riempirla!
E ancora devo imparare ad avvicinarmi a te più modestia: con troppo impeto il mio cuore ti corre incontro.
Il mio cuore sul quale arde la mia estate breve, calda, melanconica e più che beata: come anela il mio cuore estivo alla tua frescura!
Scomparsa è la trepida mestizia della mia primavera! Scomparsa la cattiveria dei miei fiocchi di neve nel giugno! Divenni tutto estate e meriggio d’estate!
Un’estate sulla vetta più eccelsa, con fonti silenziose, fresche, beate: oh, venite, amici miei, perché ancor più beato divenga il silenzio!
Giacché questa è la nostra vetta e la nostra patria: inaccessibili siamo noi qui agl’impuri e alla sete loro.
Gettate i vostri sguardi puri nella fonte del mio piacere, amici! Come potrebbe essa per questo intorbidarsi? Essa vi deve sorridere con la sua purezza.
Sull’albero dell’avvenire noi edifichiamo il nostro nido; le aquile porteranno a noi solitari il cibo nel loro becco!
In verità non un cibo che possano mangiare anche gli impuri! Crederebbero di mangiar fuoco e si brucerebbero anche il grugno! In verità noi non abbiamo qui dimore destinate agl’immondi! Una caverna di ghiaccio, sarebbe la nostra felicità per i loro corpi e per i loro spiriti!
E noi vogliamo vivere sopra di loro come venti impetuosi, vicini alle aquile, vicini alla neve, al sole vicino: così vivono i venti impetuosi.
E come il vento soffierò un giorno tra loro e col mio spirito mozzerò il loro respiro: questo vuole il mio avvenire.
In verità un vento impetuoso è Zarathustra per tutte le bassure; e questo è il consiglio che egli dà ai suoi amici e a tutto ciò che vomita e sputa: «badate a non sputar contro vento!».
Così parlò Zarathustra.